"UNA SPIEGAZIONE PER TUTTO": NELL'UNGHERIA DI ORBáN L'ESAME DI MATURITà DIVENTA UN CASO POLITICO

L’Ungheria di Viktor Orbán da noi è spesso alle cronache, per svariati e non lieti motivi. Il 1° maggio arriva finalmente in sala con la Arthouse di I Wonder Pictures "Una spiegazione per tutto" (Explanation for everything), film esemplare di Gábor Reisz vincitore del premio Orizzonti a Venezia 80. È un film esemplare perché condensa in una vicenda apparentemente irrilevante le dinamiche politiche perverse e le divisioni profonde di un Paese che dal 2010 è saldamente controllato dallo stesso primo ministro. 

L’avvio è giovanilista e innocente, con i tormenti del liceale Abel (Gáspár Adonyi-Walsh) che deve affrontare l’esame di maturità e Janka, la sua amica del cuore, che inopinatamente confessa al professore di storia un amore covato per anni. Ma da una "Notte prima degli esami" d’autore si passa a ben altro, quando Abel, studente svogliato, all’esame di storia fa scena muta e viene bocciato. La scusa che trova col padre è la coccarda tricolore che portava sulla giacca: gli avrebbe attirato le antipatie di Jakab (András Rusznák), insegnante di dichiarate idee progressiste. È indispensabile spiegare che questo simbolo, che un tempo celebrava l’anniversario della Guerra d’Indipendenza ungherese del 1848, oggi è diventato l’emblema identitario ostentato dai nazionalisti filo-governativi, e non indossarlo significa essere oppositori, nemici interni. 

Già in urto con l’insegnante (a cui rimprovera di parlare troppo ai ragazzi delle vittime del nazismo e troppo poco di quelle del socialismo), il padre grida alla bocciatura "politica" e il caso, di chiacchiera in chiacchiera, finisce sulla prima pagina di un giornaletto filogovernativo. Lo scandalo, diventato di portata nazionale, farà decollare la carriera di una giornalista alle prime armi e porterà sull’orlo del licenziamento il professore, che mantiene la famiglia con 600 euro al mese. È un meccanismo diabolico, perché la scuola non può difendersi senza autorizzazioni dall’alto e contro ogni regola ad Abel si permette di ripetere l’esame, in un’aula strapiena di stampa e di telecamere. Ma lui sa, meglio di chiunque altro, che semplicemente non è in grado di sostenerlo. 

Il racconto dei sette giorni non solo è tesissimo, ma è magnificamente diretto e orchestrato, dando voce a una frattura civile che invade anche le minime sfere del quotidiano, alle ipocrisie di ministri che vantano un protagonismo fasullo nei fatti del 1956, all’avvilimento dell’istituzione scolastica, ai favoritismi di parte in un sistema che li alimenta.

Racconta il regista che l’idea del film è nata nel 2020, dopo le manifestazioni di studenti e insegnanti contro una riforma dell’istruzione che arrivò dopo anni di tagli spietati e l’abolizione del ministero competente. “Oltre all’allungamento dell’anno scolastico - dice Reisz - i docenti, che hanno stipendi ridicoli, sono stati sovraccaricati di altro lavoro e sottoposti a severissimi criteri di valutazione del rendimento”.

A quarantatré anni e al suo terzo lungometraggio, Reisz è una delle punte di diamante del nuovo cinema europeo. E sull’Ungheria di oggi non usa mezzi termini. “Orbán usa una comunicazione molto aggressiva - ha detto qualche mese fa al Tertio Millennio Film Fest, che lo ospitava - cavalca la polarizzazione, crea nemici invisibili, fa terrorismo psicologico e non favorisce punti d’incontro tra le parti. Le persone ormai non si ascoltano e non si capiscono. E un certo modo di fare giornalismo, che nel film ha un ruolo fondamentale, è responsabile della manipolazione delle notizie. È sempre più difficile in Ungheria avere una informazione corretta”.

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