Questa intervista di Paolo Mereghetti a Marco Bellocchio è stata pubblicata su 7 in edicola il 26 maggio, alla vigilia della conclusione del Festival di Cannes - che due anni fa gli ha conferito la Palma d’oro alla carriera - dove il suo film «Rapito» è in concorso
Per raggiungere gli uffici di Marco Bellocchio a Roma bisogna passare per Porta Pia, proprio dove ha ambientato una scena del suo ultimo film, Rapito (qui sotto dopo il sommarietto, la locandina), presentato martedì 23 maggio in concorso a Cannes e dal 25 nei cinema (in attesa, il 27 maggio, del verdetto dei premi). Dopo aver raccontato il passato prossimo con Esterno notte (che gli ha fatto vincere il David di Donatello come miglior regista), con Rapito torna indietro di 150 anni, nel 1858, quando il piccolo Edgardo Mortara fu strappato alla sua famiglia ebrea perché era stato battezzato di nascosto dalla sua tata. Un fatto che scatenò infinite polemiche contro Papa Pio IX e la Chiesa di allora a cui nemmeno la presa di Roma mise il punto finale.
Quando ha scoperto la storia di Edgardo Mortara? «L’ho scoperta una quindicina di anni fa, come al solito per caso, da un articolo sul Corriere della Sera che parlava di quel caso attraverso un libro di Vittorio Messori, un giornalista cattolico che utilizzava la biografia dello stesso Mortara per difendere Pio IX e ribadire che quello che tutti consideravano (e considerano) un vero e proprio rapimento era accaduto senza che fosse stata esercitata alcuna violenza. In ogni modo l’articolo mi aveva incuriosito: quella storia — che io non conoscevo assolutamente — poteva essere potenzialmente molto interessante. E ho iniziato a documentarmi».
Una storia che aveva attirato anche Steven Spielberg. «Quasi subito ho scoperto che anche Spielberg si stava interessando al caso di Edgardo Mortara. Anzi, che la sua macchina produttiva si era già messa in moto: non so se lo stesso regista, ma lo scenografo e il direttore della fotografia erano venuti a fare i sopralluoghi in Italia e avevano fatto anche dei provini. E così ho accantonato l’idea: non aveva nessun senso mettersi in competizione con lui».
«MI HANNO COLPITO DUE ELEMENTI. IL PRIMO È PROPRIO IL RAPIMENTO: COME SI SIA POTUTO PORTAR VIA UN BAMBINO DI SEI ANNI ALLA SUA FAMIGLIA E AL SUO MONDO. NON MI INTERESSA ASSOLUTAMENTE SCATENARE POLEMICHE, MA SOTTOLINEARE COME LA FEDE, COME LA RELIGIONE SIANO INEVITABILMENTE INTOLLERANTI»
Poi però Spielberg ha abbandonato il progetto. «Come ho fatto io. Ma quando sono andato in America per la promozione del Traditore, alla fine del 2019, mi è tornata in mente quella storia, che continuava a intrigarmi perché raccontava una certa Italia, e poi l’Ottocento e il Risorgimento e il potere della Chiesa. Così ho scoperto che Spielberg aveva abbandonato il progetto, mi sembra perché non avesse trovato l’interprete adatto. Solo in quel momento mi sono sentito libero di tentare».
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Anche Julian Schnabel sembrava volesse filmare quella storia, ma sia lui che Spielberg hanno origini ebraiche e si possono intuire le ragioni del loro interesse. Lei, invece, è un ateo convinto: che cosa l’ha interessata? «Mi hanno colpito due elementi. Il primo è proprio il rapimento: come si sia potuto portar via un bambino di sei anni alla sua famiglia e al suo mondo. Non mi interessa assolutamente scatenare polemiche, ma sottolineare come la fede, come la religione siano inevitabilmente intolleranti, perché sono costruite su una verità che non può essere contestata. È il senso del non possumus che pronuncia Pio IX: come capo della Chiesa non può comportarsi diversamente perché il battesimo ha fatto cristiano il bambino e in quanto cristiano non può fare altro che prenderlo con sé. La religione ha le sue certezze che non sono contrattabili. Anche il nostro attuale Papa tanto amato dice: Nel nome del signore... C’è la carità, c’è la misericordia, però non è che in nome della carità o della misericordia si possano mettere in discussione i dogmi della fede».
«EDGARDO, PUR CONVERTITO A FORZA, ADERÌ TOTALMENTE ALLA FEDE CATTOLICA, CHE NON RINNEGÒ MAI, FINO ALLA MORTE NEL 1940. SE NE PUÒ DARE UNA SPIEGAZIONE PSICOANALITICA»
Bellocchio con Filippo Timi e, qui sotto, con Barbara Ronchi durante le riprese di «Rapito» (foto Anna Camerlingo)
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E la seconda ragione di interesse? «L’adesione di Edgardo alla fede cattolica, che non ha mai rinnegato e a cui ha aderito totalmente, fino alla morte nel 1940. Se ne può dare una spiegazione psicoanalitica: in quanto bambino, vede solo nell’adesione alla religione cattolica la possibilità di sopravvivere, anche se storicamente molti di quei ragazzi convertiti a forza sono poi tornarti all’ebraismo, soprattutto dopo la liberazione di Roma. Edgardo invece ha voluto seguire sempre il Papa, forse per un senso di riconoscenza (il Pontefice era stato molto generoso con Edgardo, pagando i suoi studi) o forse per qualche altra ragione. C’è stato anche un ricercatore americano che ha interpretato il rapporto tra il Papa e il bambino come un rapporto di abusi, ma non credo proprio che ci fossero stati».
Non è la prima volta che in un suo film il protagonista si trova di fronte a un Potere che lo affascina. Ma è la prima volta che questo protagonista è un bambino. «Questa è la grande sfida del film, perché viviamo in un mondo talmente lontano da quello che succedeva a metà Ottocento che il bambino non poteva essere come quelli che si vedono sempre in televisione, e che fanno venire i brividi. Il problema degli attori bambini è che quando recitano, finiscono sempre per rifare un po’ sé stessi: sei tu che devi adattarti a loro, non puoi chiedergli quello che chiedi a un attore adulto. Alla fine, davvero dopo tantissimi provini, mi sembra di aver fatto la scelta giusta perché il piccolo Enea Sala sa dare credibilità alla sua sofferenza e alla sua rassegnazione».
«NON HO INVENTATO NULLA NEL FILM, MENO CHE MENO QUELLO CHE FA PIO IX. CERTO, LA SCENEGGIATURA PUO’ SOTTOLINEARE CERTI FATTI... MA TUTTO QUELLO CHE SI VEDE NEL FILM È ASSOLUTAMENTE VERO. ANCHE LA SCENA IN CUI IL PAPA NASCONDE EDGARDO SOTTO LA SUA VESTE»
Bellocchio mentre rivede una scena al monitor (foto Anna Camerlingo)
È un bambino ebreo? «No, non è ebreo e non è neppure battezzato, ma ha rivelato una sensibilità perfetta per il ruolo: ha imparato l’ebraico e il latino con notevole disinvoltura e ha anche quella leggera inflessione emiliana che cercavo. Se diventava una macchietta mi giocavo il film. Spero di aver fatto la scelta giusta».
Paura delle polemiche? «Se penso al peso che aveva la politica (e l’ideologia) in Esterno notte, devo dire che vedo Rapito come una specie di romanzo sospeso nel tempo, e lontano più di 150 anni. Il che mi ha fatto sentire piuttosto libero. Non ho inventato nulla nel film, meno che meno quello che fa Pio IX. Certo, la sceneggiatura finisce per sottolineare certi fatti, a volte calca di più a volte meno, ma tutto quello che si vede nel film è assolutamente vero. Anche la scena in cui il Papa nasconde Edgardo sotto la sua veste è stata raccontata dallo stesso Mortara nella sua autobiografia, così come quella in cui deve fare tre segni di croce con la lingua per terra. Lo dice lui, e lo racconta come un ordine che era giusto ricevere dal Papa».
Certe scene fanno capire che anche l’adesione di Edgardo al Cristianesimo aveva i suoi momenti di debolezza. «Certe sconnessioni, certe ribellioni di cui Mortara sembra non rendersi perfettamente conto sono raccontate con insolita sincerità da lui stesso, come per esempio la scena in cui fa cadere il Papa per un eccesso di devozione. E i suoi ricoveri in ospedale per certe strane crisi (non dimentichiamo che Freud era ancora di là da venire) sono tutti documentati. Poi ci siamo presi qualche libertà, per esempio nella scena in cui segue il feretro del Papa o in quella in cui incontra la mamma sul letto di morte, ma il senso delle azioni di Mortara è assolutamente coerente con quello che ha raccontato lui stesso della sua vita».
«LO DICEVA ANCHE MIO FRATELLO PIERGIORGIO: PER LA VISIONE CRISTIANA SONO STATI MOLTO PIÙ PREZIOSI I GRANDI ARTISTI CHE NON I GRANDI TEOLOGI, COME SE IL MESSAGGIO DELL’ARTE PRODUCESSE UN’EMOZIONE CHE COSTRUISCE UN CAMPO COMUNE TRA CHI CREDE E CHI NON CREDE»
Un momento delle riprese di «Rapito» con Marco Bellocchio che dà indicazioni all’attrice Federica Fracassi, sotto un ombrello. A sinistra, Giulia Quadrelli. Il filmè stato girato tra Roma, Parigi e nel Parmense a Roccabianca (foto A. Camerlenghi)
Se si ripensa a e lo si collega a questo, sembra di vedere un suo diverso atteggiamento rispetto alla religiosità, alla spiritualità. «Sicuramente in me c’è una disponibilità maggiore ad ascoltare. Cito spesso la mia reazione a una scena di Ordet - La parola di Carl Theodor Dreyer (film del 1955 del grande regista danese; ndr ), quando Johannes si trova di fronte al cadavere della cognata: il vedovo lo supplica di andarsene, temendo le sue escandescenze, ma lui chiede a Dio la grazia di resuscitarla e la donna torna in vita. Ora, io non credo al miracolo, ma vedendo come quel miracolo è raccontato in una scena di sublime bellezza, mi sono commosso. È quello che diceva anche mio fratello Piergiorgio: per la visione cristiana sono stati molto più preziosi i grandi artisti che non i grandi teologi, come se il messaggio dell’arte producesse un’emozione che costruisce un campo comune tra chi crede e chi non crede. Io non credo lo stesso e non mi converto, però devo dire che la bellezza mi colpisce».
Discuteva con Piergiorgio dei suoi film? «No, anche perché è stato solo a partire dalle riprese di Marx può aspettare che i nostri rapporti si sono ammorbiditi. Prima lui vedeva i miei film quando uscivano al cinema e a volte mi scriveva le sue reazioni».
«I RAPPORTI CON MIO FRATELLO PIERGIORGIO DA POCO ERANO PIÙ MORBIDI: PRIMA I MIEI FILM LI VEDEVA AL CINEMA E A VOLTE MI SCRIVEVA»
Una foto di scena dal film «Rapito», di Marco Bellocchio, in concorso a Cannes
Una delle scene più emozionanti del film è quando Edgardo sogna di liberare il Cristo dai chiodi della croce. E spesso nei suoi film i personaggi sognano. Lei sogna molto? «Dal momento che da parecchi anni non vado in analisi, non sono più molto allenato a lavorare sui miei sogni. Il sogno per me è libertà di immaginare e se metto i sogni nei miei film è perché vorrei dare ai miei personaggi questa stessa libertà. Ma io preferisco sognare a occhi aperti, avere degli scatti di immaginazione grazie ai quali mi separo dalla verosimiglianza della realtà, il che non avviene per me necessariamente nel sogno. Alcune volte, abbastanza di rado, anch’io vengo sorpreso da sogni inaspettati, legati a persone care che sono mancate, come mio fratello Piergiorgio, una volta anche Camillo. Ma non hanno rapporto con il mio lavoro artistico, dove magari sono più facilmente recuperabili certe influenze artistiche, non in maniera così puntuale come ha fatto Pasolini ma in modi più sfumati».
Lei ha 83 anni e sta vivendo una straordinaria giovinezza creativa: accetta addirittura di mettersi in discussione andando ai festival in concorso. Cosa che non tutti i suoi colleghi sembrano disposti a fare. «Ho sempre accettato di andare in concorso ai festival quando me lo proponevano, anche se poi non ho ricevuto molti riconoscimenti. Mi è andata meglio con i premi alla carriera, che ho ricevuto a Berlino, a Venezia e a Cannes. Ma io sono abituato ad ascoltare chi lavora con me: mi dicono che il concorso dà più forza al film mentre il fuori concorso assomiglia a una specie di giubilazione. E allora per il bene della vita commerciale del film accetto di non vincere niente in concorso».
C’è un film che avrebbe voluto fare e non è riuscito a realizzare? «Mi attraggono certe cose di teatro. Ricordo che dopo aver fatto Zio Vania a teatro pensai di farne un film che però non si fece. Harvey Keitel mi propose di dirigerlo al cinema nel Mercante di Venezia di Shakespeare ma poi mancò il potenziale produttivo per farlo. Peccato, perché avrei potuto misurarmi con la lingua inglese: mi affascinava molto l’idea di essere a Venezia e parlare la lingua di Shakespeare. Avrei voluto fare anche un film su Madame Curie ma poi seppi che qualcuno lo stava già facendo e così abbandonai l’idea. Ecco, queste due o tre occasioni mancate mi hanno lasciato qualche rimpianto. Anche la storia della spia Sorge mi incuriosiva, anche qui per la possibilità di lavorare con due o tre lingue diverse. Questa idea di girare in un’altra lingua che non sia l’italiano mi intriga molto».
«ALL’INIZIO VOLEVO FARE L’ATTORE. POI PERÒ... QUESTA MIA VOCE, CHE IO ADESSO SOPPORTO, ERA COME SE MI DICESSE DI NON PROVARCI»
Non è tentato dal salto bertolucciano verso il kolossal straniero. «Non lo escludo però ci devono essere le condizioni. Un’idea che ho accarezzato è stata quella di fare un film su Matteo Ricci, il grande gesuita che viaggiò in Cina. Poi però conosco i miei limiti e so le mie fragilità: ci vorrebbe un grande produttore internazionale capace di trascinarmi dentro un’idea così».
All’inizio voleva fare l’attore. Si era iscritto anche al Centro sperimentale per seguire i corsi di recitazione. Nessun rimpianto? «Nessuno. Anche antropologicamente mi sono strutturato come regista. E poi questa mia voce, che io adesso sopporto, era come se mi dicesse: no, l’attore deve emettere degli altri suoni. Anche perché credo che nel fare il regista e nel comunicare con gli attori, io faccia ancora un po’ l’attore».
«VARI REGISTI HANNO MOGLI MONTATRICI, COME LA MIA FRANCESCA. PENSO A WENDERS. SUL LAVORO C’È DIALETTICA E AFFETTO PER IL FILM»
La montatrice dei suoi film è Francesca Calvelli, che lei ha sposato e con cui ha fatto una figlia. È complicato lavorare con la propria moglie? «Intanto ho scoperto che molti registi hanno delle mogli montatrici, come Wenders per esempio. Quando inizia il montaggio di un film i nostri rapporti sono molto dialettici, se non addirittura litigiosi — mi sento dire che ho scelto un attore cane o che mi sono dimenticato di fare un controcampo a una scena dove serviva — però ad un certo punto scatta l’atteggiamento di chi vuole fare tutto il possibile per ottenere il risultato migliore. Eliminando ogni tipo di rassegnazione. È un atteggiamento suo ma anche mio: lottare fino all’ultimo per dare al film la sua forma migliore. Così l’atteggiamento diventa molto più affettuoso, di forte reciprocità. E il film recupera forza nella seconda parte».
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