Suo padre è stato un mistero anche per lui. Suo padre si chiamava Ennio Morricone. Marco, classe 1957, è il primogenito che dagli Anni 80 si è preso cura di lui, lo accompagnava dappertutto. Gli altri figli sono Alessandra, dermatologa e nefrologa, Andrea, direttore d’orchestra, e Giovanni, regista. Ennio era un personaggio enigmatico, lo ricordano anche Gino Paoli e Caterina Caselli nello splendido documentario che Giuseppe Tornatore ha dedicato al grande compositore.
Marco, chi era «Un uomo pieno di contraddizioni che viveva in un mondo ancora tutto da scoprire. Profondamente creativo ma faceva un lavoro di scienza, perché la musica è anche matematica. Aveva un animo infantile abbinato a una quantità di studi infinita, rifiutava la melodia ma era un fuoriclasse della melodia».
Era presente a casa? «Fisicamente sì, perché componeva, era concentrato sul lavoro. Io potevo fare tutto il casino che volevo, purché non ascoltassi dischi. Siamo cresciuti in assenza di musica (compresa la sua). Che era nella sua testa. E non voleva farsi influenzare».
Era un uomo ordinato? «Era meticoloso. Si ritrovava nel suo disordine. In ogni angolo della casa aveva un taccuino con la penna per fermare una possibile idea. Gli intoccabili lo scrisse in bagno di notte, Sacco e Vanzetti sulla spiaggia al mare, Sostiene Pereirasulla scia di un corteo che manifestava sotto casa. Era terribilmente curioso».
Vi portava, a voi figli, al cinema, o sui set? «Mai. Lui ci andava una volta l’anno, si vedeva tre film di seguito e stop. Quanto ai set, lo raggiunsi a Cinecittà per C’era una volta in America, ricordo Robert De Niro che dopo il ciak, truccato da vecchio, in pausa, mangiava tutto curvo, continuava a fingersi vecchio. Quel film lo girarono con la musica di papà sotto, il tema di Deborah e gli altri».
.. «Diceva che quando io prestavo i suoi dischi, i miei amici non li restituivano. Ma erano episodi di quarant’anni prima! Papà era fatto così».
Lo scandalo all’Oscar che gli fu negato per Mission? «Vinse Round Midnight che, contro il regolamento, non aveva tutta musica originale. Papà ci disse che non gli importava: in realtà gli importava eccome, era uno dei suoi tanti conflitti interiori. Il primo dei due Oscar, quello alla carriera, fu un risarcimento».
Per approfondire
La storia dell’auto necrologio fece il giro del mondo. « Ce lo consegnò il giorno prima di morire. Fu una cosa terrificante, in tre parole, ho fatto tutto, c’era la sensazione che volesse dirci: lasciatemi in pace, voglio andare via. Ho fatto tutto, nel lavoro e nella vita. Reagii, ma cosa stai dicendo? Papà rimase impassibile. Eravamo in ospedale, io, mio fratello Giovanni e mamma. La vita che loro due hanno fatto insieme è stata meravigliosa, lui le ha dedicato gli Oscar e la sua unica Messa. Dopo la sua morte mamma ci ha detto: d’ora in poi consideratemi come una vedova siciliana. Non voglio più apparire. L’arrivo al Campus Bio-Medico fu incredibile».
Può raccontarlo? «Come ogni domenica, era a pranzo da me. Nel pomeriggio mi chiamò mamma: corri, papà è caduto. Si lamentava del dolore. Arrivò l’ambulanza ma davanti a casa cadde un enorme ramo di un pino che ci divise a metà, davanti c’eravamo io e papà, dietro mamma e mia moglie Monica. Fu come un presagio. Non potevo nemmeno aprire il garage, il figlio di Walter Chiari, nostro vicino, mi prestò l’auto».
Ennio diceva di convivere con due anime. «Erano varie e contrarie a sé stesse. Ma anche nelle colonne sonore metteva piccole idee nascoste della sua formazione classica, Palestrina, Frescobaldi, Bach, Stravinskij. Mamma vigilava sul suo talento, era la prima a sentire le sue musiche e solo quando lei le approvava, col suo orecchio raffinato ma popolare, procedeva. Fu molto buffo il trasloco, quando dal centro si trasferirono all’Eur nel palazzo dove già abitavo io. Papà mise mamma di fronte al fatto compiuto, si presentò con buste e cartoni, e una cartella con alcuni spartiti».
Era tifoso della Roma. «E nel nostro palazzo abitava Spalletti, che all’epoca l’allenava. Era un periodo di tensione tra lui e la società. Papà andò a bussargli alla porta, gli disse che doveva restare, che solo con lui la squadra poteva vincere. Ma lui se ne andò».
Il mondo accademico gli fu ostile per l’aspetto commerciale delle colonne sonore, riconobbe il suo talento tardivamente. «In una lettera Boris Porena gli chiese scusa e Goffredo Petrassi, suo maestro, disse che un tema come quello di Deborah non poteva essere stato scritto da un artista che non ami e studi la musica. Il suo rapporto con Petrassi meriterebbe un film. Papà lo rispettò sempre. Dopo che John Huston, il grande regista, per La Bibbia rinunciò a Petrassi dicendo che aveva scritto musica troppo difficile, andò dal suo allievo, mio padre. Ci fu imbarazzo. A Santa Cecilia papà venne nominato accademico solo a 69 anni, lui non si sentiva quasi all’altezza».
A un certo punto diventò direttore d’orchestra. «Negli Anni 80, ma dirigeva solo musiche sue. Ricordo il primo concerto sul podio, a Londra, dietro le quinte mi chiedeva, ma ci sarà gente? Era strapiena la sala. Faceva parte della sua umiltà, non ha mai inseguito il successo».
L’ha mai visto piangere? «Due sole volte, quando morì la mamma di mamma, con cui papà litigava spesso sulla nostra educazione (lui era esigente, austero, severo) ma la recuperò in punta di morte. Poi pianse prima di un concerto nello stadio di San Paolo, in Brasile: ci portarono alla scuola di musica di una favela, c’era solo lo scheletro dell’edificio, i ragazzini suonavano e non c’erano nemmeno le finestre. Una scena commovente. Papà li volle in apertura del suo concerto».
Come nacque il rapporto con ? «Io lo chiamo il mio fratello illegittimo. Nuovo Cinema Paradisonon voleva farlo, gli chiese: ma lei vuole musica folcloristica siciliana? Rispose no. E papà, allora, accettò».
La musica di suo padre buca la pancia. «Non voleva più scriverla, a casa non suonava più il piano. La penultima musica fu quella per la sua commedia, Valerio, in nome della vostra antica amicizia; l’ultima fu per la ricostruzione del ponte Morandi a Genova. All’inizio disse no, poi vide sul ponte le 43 luci, una per ogni vittima, e la compose in sei ore».
Tarantino, per il quale vinse il secondo Oscar, lo definisce il Mozart del ’900. «Papà diceva che la risposta l’avrebbe data il tempo. È stato un rivoluzionario, prima di lui la colonna sonora accompagnava i film, mentre le musiche di papà vivono senza immagini. A Larissa, in Grecia, hanno il suo culto, le strade sono tappezzate di murales col suo volto. Io ho goduto dei suoi insegnamenti fino all’ultimo. Ma non parlava: dava l’esempio col suo comportamento. Il primo è stato l’etica e il rispetto del prossimo. Noi familiari siamo solo il corollario del suo genio. A mia figlia Valentina che suonava il piano disse: studi 12 ore al giorno? No? Allora lascia stare».
Ennio si svegliava all’alba. «Prima dell’alba, alle quattro. Per un’ora camminava intorno al salone e alla camera da pranzo, poi faceva una strana ginnastica. Era anti tecnologico. Usava il fax, il numero fisso, il computer non sapeva accenderlo, la musica la scriveva a penna. Cosa mi manca di più? I suoi silenzi».
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